✏️ "Raccontare la musica col fumetto è una delle cose più difficili" intervista a Emanuele Rosso
Indie Riviera ospita un'intervista al fumettista (e tanto altro) Emanuele Rosso, da poco tornato sugli scaffali con Off The Record, un fumetto ambientato durante gli anni d'oro dell'indie italiano
Oggi Indie Riviera ha il piacere di avere come ospite Emanuele Rosso. Emanuele è un fumettista, operatore culturale, organizzatore di eventi, insegnante presso IED e Scuola Internazionale di Comics e copywriter per l'agenzia di comunicazione integrata Between. Inoltre è tra i fondatori di MeFu - Mestieri del Fumetto, associazione senza scopo di lucro che si propone di tutelare e rappresentare chi crea fumetti in Italia.
Emanuele ha all'attivo diverse pubblicazioni, ad inizio carriera ha fatto da assistente a Davide Toffolo su Carnera. La montagna che cammina, ha esordito con il graphic novel Passato, prossimo pubblicato da Tunué e i suoi lavori sono stati pubblicati su Internazionale, La Stampa e GQ Italia, solo per citarne alcuni.
Oggi vive e lavora a Torino, ma è nato ad Udine, ha studiato a Bologna e, a metà degli anni 00, ha girato l'italia con il furgoncino al seguito di alcune band, vivendo in prima persona l'esplosione della scena indie in Italia, "before it was cool".
Da quest'ultima esperienza è nata l'idea, in parte autobiografica, della sua ultima produzione: Off The Record. In principio Off The Record era un webcomics pubblicato periodicamente e gratuitamente online attraverso la sua newsletter, oggi è disponibile anche in formato cartaceo e qui Emanuele ti spiega tutto quello che c’è da sapere.
Ciao Emanuele, benvenuto su Indie Riviera. Prima di Off The Record avevi già all'attivo diverse pubblicazioni, alcune anche con case editrici importanti come Tunué, questa volta invece hai optato per un'autoproduzione.
Per un mio pregiudizio mi verrebbe da pensare che farsi aiutare da un buon editore possa aiutare, eppure tu che sei una firma conosciuta, hai deciso di autopubblicarti dimostrando evidentemente che si tratta di un passo in avanti. Ci spieghi questa scelta? Cosa ti offre di più l'autopubblicazione?
Oltre a disegnare fumetti ho l’opportunità di insegnare metodologie di management e marketing applicate a fumetto e illustrazione presso IED e Scuola internazionale di Comics di Torino, e mi soffermo parecchio su vantaggi e svantaggi dell’affidarsi all’autopubblicazione. Per una volta, oltre a spiegarli, ho voluto testarli di persona. E quindi ho voluto usare Off the Record come un esperimento su me stesso: sulla disintermediazione a tutti i livelli. Facendomi promozione da solo, vedendo a quanto pubblico riesco ad arrivare, quanto ne coinvolgo, quanto riesco a monetizzare all’interno del mio bacino, quante persone compreranno una copia del libro, quanto mi costerà in termini economici e di tempo.
Non credo che abbia più tanto senso valutare l’autoproduzione come un abbassamento rispetto all’editoria. È un’altra cosa, parallela. Se ti capita di fare un giro nelle self area - cioè le aree dedicate all’autoproduzione - delle principali fiere italiane (Lucca Comics & Games, ARF Festival a Roma, Treviso Comic Book Festival...), vedrai che la qualità dei prodotti è assolutamente comparabile a quella degli editori “tradizionali”.
È chiaro che nel disintermediare perdi la distribuzione: se autoproduci devi distribuirti da solo, al massimo ti appoggi con un conto vendita alle librerie con cui hai un contatto diretto, ma non hai una distribuzione vera e propria su scala nazionale. L’altra cosa che effettivamente perdi è il prestigio. Pubblicare con un editore ti dà una sorta di posizionamento culturale, chiamiamolo così.
Se pubblichi con un editore puoi essere più facilmente invitato a festival ed eventi di settore a presentare il libro, puoi essere candidato ai principali premi. Sono tutte cose che non hanno un ritorno economico diretto, ma contribuiscono al posizionamento culturale della propria figura di autore (e quindi magari a un ritorno economico futuro dato da altre opportunità nel medesimo settore culturale). Questo diventa più difficile da ottenere se non pubblichi con un editore, perché di solito l’accesso a certe posizioni passa da lì. Diciamo che gli elementi di perdita principali sono due: distribuzione e posizionamento culturale.
Per il resto il tipo di impegno richiesto all’autore è praticamente lo stesso, considerando che ormai siamo in un periodo in cui agli editori è richiesto di produrre molto anche solo per restare sul mercato, e quindi c’è una grande difficoltà a seguire nelle attività di promozione ogni singolo autore, finendo per privilegiare chi già sta “cavalcando l’onda”.
Comunque, già adesso, se parli con qualsiasi autore di fumetti — ma vale anche per chi è attivo in narrativa o saggistica — probabilmente ti dirà che deve promuoversi da solo, trovare le librerie per le presentazioni, fare tutta la comunicazione sui social. Quindi, visto che lo scarto è minore rispetto a un tempo, mi sono detto: proviamo ad andare “all-in” con l’autoproduzione, e vediamo cosa sono in grado di ottenere in termini di vendite e riscontro mediatico.
Of The Record è assolutamente un prodotto indipendente, da tutti i punti di vista, incarna molti valori del DIY, non solo nella storia, ma per come nasce e come viene alla luce: una newsletter gratuita, il self publishing e infine la campagna di crowdfunding, che è stata assolutamente positiva.
Hai "solo" tanti amici che ti supportano o secondo te c'è voglia di progetti che escono dai "soliti" circuiti, in una parola di "Partecipazione"? Anche perché la piattaforma che hai scelto è proprio "Produzioni dal basso".
Sì, ho una bella rete di contatti costruita negli anni, su questo non c’è dubbio. Uno può affrontare iniziative del genere solo se si sente forte della propria rete, perché altrimenti è difficile lanciare qualcosa senza ganci, senza persone disposte a investire o appoggiarti.
Credo di aver costruito negli anni una rete sufficiente, che mi ha dato la base per questo progetto. Insieme al fatto di aver portato avanti un progetto dalla natura tematica molto forte e chiara, che poteva appoggiarsi a una comunità già esistente e a una fascia demografica definita.
Dopodiché, rispetto a qualche anno fa, le cose stanno un po’ cambiando anche in Italia. Siamo un Paese dove si compra ancora molto poco online, rispetto ad altri, inoltre il crowdfunding non è ancora così usuale come negli Stati Uniti, ad esempio, dove la gente finanzia progetti su Kickstarter con facilità.
Dieci anni fa era molto meno diffusa questa pratica. L’italiano medio è un po’ restio a investire online su progetti indipendenti, però sento che il pubblico si sta abituando, sta migliorando. Quindi credo sia un mix tra le due cose.

Off The Record è una storia che si svolge in un periodo preciso, potrebbe avvenire solo in “quegli anni lì”. Romeo e Giulietta potrebbe funzionare anche oggi, infatti ci sono tanti adattamenti, invece Off The Records è legata a doppio filo agli anni in cui si svolge, potremmo dire che quegli anni e quel fermento culturale sono un personaggio come gli altri. Inoltre ha anche un valore testimoniale.
Cosa ti ha spinto a tornare proprio lì? È un’esigenza autobiografica, una forma di resa dei conti con quella stagione, o c’è anche il desiderio di raccontarla a chi non l’ha vissuta?
Erano anni che avevo in testa l’idea di raccontare quel periodo. Non necessariamente sotto forma di fumetto, ma sapevo che gli intensi anni che avevo vissuto anni in tour su e giù per l’Italia, soprattutto con gli Amari ma anche con altre band, meritavano di essere “rievocati”. Ho trascorso estati intere in furgone, ho vissuto tanti aneddoti, ho fatto parte di una certa scena, e da tempo sentivo di dover raccontare quella cosa.
Non riuscivo però a trovare la chiave narrativa giusta. Sapevo che volevo raccontare quel periodo, di cui ormai si sta iniziando a celebrare il ventennale, considerando che parliamo a grandi linee delle estati tra il 2005 e 2008, ma non avevo ancora chiaro come.
Poi pian piano l’idea si è coagulata intorno a un’invenzione: i Recordi, una band fittizia grazie al quale poter raccontare tanto cose realmente accadute quanto altre assolutamente inventate, come ho già fatto in altri fumetti e come credo farò ancora in futuro, mescolando realtà e finzione.
Perché il mio non è un interesse documentaristico ma narrativo, e quando ho trovato il giusto equilibrio tra finzione e realtà, si è sbloccato anche il processo di scrittura, ed è diventato possibile costruirne via via una storia che avesse una forma compiuta.
A proposito di "quegli anni lì", di recente ho ascoltato un'intervista di Manuel Agnelli a Dente. Manuel faceva presente che la scena underground che ha vissuto lui negli anni 90 e 2000 non esiste più e lui, nel suo locale Germi, sta cercando di offrire questa opportunità ai nuovi gruppi. Dente, dal canto suo, gli faceva presente che quella che non c'è più non è la scena underground, ma l'energia che avevamo noi allora, che ci faceva vivere tutto con più entusiasmo, sorpresa e fervore. Cosa ne pensi?
Io penso che “quella stagione lì” sia accaduta in una fase di passaggio che l’ha un po’ schiacciata. Da una parte stava finendo l’ultima ondata dell’industria discografica classica, l’ultima in cui si facevano ancora soldi vendendo dischi. Dall’altra stava arrivando il digitale e l’internet di massa.
Se ci pensi era appena nato Napster e tutto il mondo del peer2peer, iniziavano ad affermarsi i primi social network, da MySpace a Facebook, senza tralasciare il compianto Fotolog (compianto probabilmente da una micronicchia, ma tant’è). Quindi quella scena musicale ha avuto la “sfortuna” di trovarsi in un cono d’ombra: i soldi erano finiti, ma non c’erano ancora gli strumenti per diventare famosi grazie a internet, con poco budget.
Poi quella scena lì era anche molto varia, come proposte. C’era tantissima roba molto diversa: chi cantava in inglese, chi in italiano, chi faceva cose più pop, chi più rock, chi emo-core, chi più elettronico, chi più dance... C’era una proposta musicale estremamente variegata, con influenze molto diverse.
Per un ascoltatore anche solo minimamente curioso, era una figata. Però, proprio perché era così varia, finiva per essere un po’ dispersiva. Faticava a raccogliere intorno a sé un pubblico sufficientemente coeso, tale da creare una massa critica.
Delle band dei primi Duemila penso che poche abbiano poi avuto un successo davvero grosso. Forse solo i Perturbazione — che comunque avevano iniziato già prima, alla fine degli anni ‘90 — e che possono essere considerati i “fratelli maggiori” di quella scena lì.
Gli altri che forse hanno "svoltato", per così dire, sono gli Ex-Otago, ma l’hanno fatto cambiando radicalmente il tipo di musica che suonavano. Se uno pensa all’EP The Chestnut Time o al primo album Tanti saluti siamo lontanissimi dalla svolta più pop che li ha portati fino a Sanremo.
Quindi sì, hanno avuto successo, ma al prezzo — dal mio punto di vista — di una certa “normalizzazione”. A me piaceva di più la vena un po’ matta degli esordi. Poi, ovviamente, sono contento per il loro successo, ci mancherebbe, però è evidente che per arrivare al grande pubblico hanno dovuto rientrare in una forma-canzone un po’ più classica.
Quindi, non so se sia corretto dire che “è colpa del periodo”, ma di certo in quel momento è cambiato tutto: tecnologicamente, culturalmente e socialmente. E tutta quella musica lì è rimasta un po’ vittima di quel cambiamento.
Ne parlavo di recente in un'intervista con Rossano Lo Mele di come la musica, da sempre, sia stata anche una grammatica condivisa attraverso cui le persone possano riunirsi in tribù.
Quella volta pensavamo di ascoltare musica che conoscevamo solo noi, invece la tua appendice è la dimostrazione che eravamo meno soli di quello che pensavamo e che quel legame ha resistito.
Sì, esatto. All’epoca c’erano tante micro-nicchie. Magari un migliaio di persone che ascoltavano una singola band, con un sacco di intersezioni tra una e l’altra. Ma nella somma dei contributi che ho ricevuto per l’appendice, emerge un senso di comunità molto presente (sebbene con i propri lati oscuri, non era tutto rose e fiori).
Mi ha emozionato leggere i testi mano a mano che arrivavano. In ognuno vengono citate band o persone che poi ricompaiono in altri contributi. Leggendo tutto è come se davanti agli occhi si componesse un mosaico. Ti restituisce proprio l’idea di una comunità frammentata, un po’ dispersiva, ma reale.
Io, personalmente, quel senso di comunità lo sentivo. Frequentavo tanti festival e concerti, e alla fine incrociavo spesso le stesse persone. Molti erano ascoltatori fidelizzati, perché non c’era un pubblico di massa, ma tante nicchie. E quindi, anche se frammentata, la comunità c’era.
Ogni tanto questa comunità si apriva grazie a band che attiravano più pubblico o ascoltatori più “casuali”. Però, secondo me, convivevano entrambe le dimensioni: una comunità coesa e tante micro-nicchie, quanti erano i gruppi e i generi dell’indie di quegli anni.
Vorrei raccontarti una mia intuizione: ho l'impressione che si stia tornando a scrivere di musica, penso di intravedere la voglia di non dipendere solo dall'algoritmo, mi sto autosuggestionando, è un mio bias cognitivo, o anche tu hai questa impressione?
Secondo me, dopo una fase di stanca, molte persone si sono riattivate. C’è voglia di tornare a scrivere. Però il tuo bias, come il mio, probabilmente deriva dal fatto che intercettiamo persone più o meno della nostra età, che già scrivevano all’epoca. Ora hanno ritrovato nelle newsletter una formula nuova e sensata, visto che i blog ormai hanno perso rilevanza.
Quello che mi manca — ma forse perché non li intercetto — è capire se ci sono ventenni o venticinquenni che scrivono di musica con una certa qualità e competenza. Se ci sono, io non li conosco, ma magari ci sono e pubblicano su altre piattaforme: TikTok, YouTube, Twitch...
Magari non scrivono, ma fanno video, reels... che sono forme di divulgazione coerenti con i tempi. Non è il mio modo preferito — io sono vecchio, preferisco leggere — però probabilmente è il linguaggio giusto per l’oggi.
Bisognerebbe capire se, tra chi racconta musica con quei linguaggi, c’è anche voglia di approfondire. Perché io vengo da un periodo pre-Internet, in cui l’ascolto musicale era stratificato: mi piaceva risalire alle reference, scoprire i padri spirituali degli artisti che amavo.
Quello che mi spaventa un po’ oggi è il “presentismo”: la tendenza a parlare solo di ciò che esce adesso, senza andare a ritroso, senza approfondire il passato. A me è sempre piaciuto scoprire la storia della musica e vedere come si intreccia con il presente.
Uno dei temi conduttori delle interviste di Indie Riviera è la scrittura musicale, ovvero tutto ciò che ruota attorno al raccontare la musica attraverso la scrittura, una cosa che potrebbe sembrare controintuitiva perché la musica andrebbe ascoltata più che raccontata, tanto che c'è la famosa citazione di dubbia attribuzione ma i più concordano nell'attribuire a Frank Zappa, secondo cui “Scrivere di musica è come danzare di architettura”.
Che difficoltà hai riscontrato nel raccontare la musica della tua band, non solo attraverso la scrittura ma anche attraverso i disegni?
Raccontare la musica col fumetto è una delle cose più difficili che si possano fare perché, banalmente, il fumetto è un linguaggio muto. C’è poi l’ulteriore scarto dato dal fatto che tanto la musica è un linguaggio continuo che impone il proprio tempo all’ascoltatore quanto il fumetto invece è discreto, procede per stacchi e unità indipendenti poste in sequenza, in cui il lettore decide tempi e modi di fruizione. Ma non voglio addentrarmi troppo in questioni semiotiche, anche se le ritengo molto interessanti.
Quello che un fumettista può fare quindi afferisce alla dimensione dell’evocazione e magari della sinestesia, richiamando atmosfere musicali attraverso il segno e il colore.
A me, personalmente, è sempre piaciuto evocare la musica attraverso il “silenzio”: mostrare vignette dove i personaggi stanno ascoltando o suonando della musica, ma non mostrare niente di quella musica, tanto meno le classiche note usate in chiave onomatopeica, in modo da dare al lettore la possibilità di immaginarsi la musica che ritiene più adatta alla scena.
E, in definitiva, tutto Off the record è una “sfida intellettuale” al lettore: che musica fanno davvero i Recordi? Come suona? In un episodio uso la definizione di “pop sbilenco”, e faccio dire a uno dei protagonisti quali sono le influenze della band, ma c’è dentro talmente tanta roba che il risultato potrebbe essere qualunque cosa. Ecco, mi piacerebbe sapere poi che musica si sono immaginate le persone che hanno letto il fumetto.
Emanuele grazie per il tempo che ci hai dedicato, per questa meravigliosa testimonianza di “quegli anni lì” e per il tuo punto di vista profondo e originali su tanti temi che ci stanno così a cuore!
Super, devo assolutamente recuperare "Off The Record", grazie per questa intervista!