🏛 Archeologia digitale: da Ian McEwan a Daniel Lopatin
Un audace (ma nemmeno tanto) parallelismo tra l'ultimo libro di Ian McEwan e l'ultimo disco di Oneohtrix Point Never, ma anche un clamoroso esordio discografico e altra bella musica di fine anno
Quello che possiamo sapere di Ian McEwan
Nel 2119 Thomas Metcalfe, professore di letteratura inglese del periodo che va dal 1990 al 2030, si sbatte parecchio per portare alla luce la fantomatica Corona per Vivien. Trattasi di un componimento poetico del 2014 ad opera del poeta-pop-star Francis Blundy.
A quanto se ne sa, nel 2014, in occasione del compleanno della moglie Vivien, Blundy compose questo miracoloso poemetto e lo recitò un’unica volta alla presenza di pochi amici. Lì per lì sembrava una serata come tante, chessò come se una persona del 1816 avesse assistito alla serata in cui Lord Byron, Percy Shelley e John Polidori si sfidarono a scrivere una storia dell’orrore. Probabilmente avrebbe pensato: “Quei ragazzini farebbero meglio a trovarsi un lavoro!” e invece stavano scrivendo la storia della letteratura.
Dal momento in cui la Corona per Vivien viene declamata dal suo autore la voce si diffonde e tutti ne parlano: siti di settore, amici, fan, riviste lifestyle, colleghi… è chiaro che si tratta dell’opera definitiva di un vero e proprio genio della sua epoca. Il fatto che l’opera non sia reperibile in alcun modo, nemmeno online, non fa che aumentarne la popolarità.
Torniamo a Thomas e al 2119. Fare esegesi cento anni dopo non è così semplice, anche perché un “Grande Disastro”, a base di surriscaldamento globale, inondazioni e scaramucce atomiche fra le solite teste calde del pianeta, ha dimezzato la popolazione umana e ridotto le terre abitabili a pochi fazzoletti di terra emersa. Dal punto di vista tecnologico la società è “freezata” ad un livello non distante da quello odierno, solo più steampunk.
Non solo, il colpo di spugna apocalittico ha fatto sì che tutto il materiale digitale prodotto in epoca passata, sia disponibile attraverso banche dati accessibili: SMS, mail, libri, pubblicazioni, post sui social network, diari messaggi whatsapp, telegram... tutto è a disposizione per un’esplorazione archeologica digitale a metà fra la ricostruzione storica e il voyeurismo.
Non posso dirti se Thomas Metcalfe riuscirà a trovare la Corona per Vivien scartabellando fra le mail di lei e di lui (sarebbe uno spoiler), ma posso dirti che s’imbatterà in un grosso imprevisto: un terribile crimine rimasto segreto e impunito per oltre 100 anni.
Il fatto che tutto quello che oggi digitalmente produciamo viene salvato su dei server e che un domani sarà a disposizione di chiunque, è un vero e proprio plot twist degno di Ian McEwan: talmente elementare - a posteriori - da risultare geniale. Proprio questo pensiero, che poche volte ci passa per la testa, almeno parlo del sottoscritto, è alla base dell’ultimo disco di Oneohtrix Point Never aka Daniel Lopatin.
All’inizio degli anni 20, Daniel Lopatin ha salvato una serie di campionature audio da spot commerciali degli anni 90 su Internet Archive, per utilizzarli in futuro. Per motivi non noti, e con grande preoccupazione di Daniel, questo materiale ad un certo punto è scomparso per poi ricomparire, altrettanto misteriosamente, quasi subito. Lo spavento e la metafora empirica dalla natura al contempo volatile e permanente delle nostre tracce digitali è stata la forza propulsiva che ha portato alla genesi di Tranquilizer, l’ultimo disco di Oneohtrix Point Never.
Tranquilizer di Oneohtrix Point Never è il disco del mese
Tranquilizer di Oneohtrix Point Never (all’anagrafe Daniel Lopatin), uscito a fine novembre e pubblicato da Warp Records, è l’undicesimo album in studio del musicista elettronico di base a Brooklyn.
Nel 2024, con Again, Daniel ha concluso una trilogia di dischi in cui ha rielaborato i suoi ascolti giovanili in chiave elettro-noise, attualizzandoli con le orecchie di un quarantenne. Rispetto a questi Tranquilizer rappresenta un deciso ritorno alle origini, accessibile e chillato: se sei a digiuno, questo potrebbe essere un ottimo punto di partenza.
In questo disco Lopatin ha tirato fuori dall’icona cestino alcune librerie di suoni digitali degli anni 90, emblema di un illusorio benessere illimitato, figlio di un cieco capitalismo, e le ha utilizzate per comporre l’ennesima ciambella col buco. Come solo un’artista d’arte contemporanea saprebbe fare, ha ribaltato il senso della realtà mettendoci di fronte al paradosso del consumismo.
Traccia dopo traccia le campionature analogiche — ringtone, cable modem, screensaver, notifiche audio 8 bit, glitch, interferenze telefoniche … — definiscono texture ambient e dream pop. Ti ci perderai dentro come succedeva quando restavi ipnotizzato davanti al labirinto di Windows 95.
Lightning Might Strike di Juliana Hatfield
La fiamma olimpica degli indie rockers della prima ora, a dicembre, è decisamente passata per le mani di Juliana Hatfield. Se fosse una puntata di MasterChef, Locatelli la definirebbe survivor.
Juliana ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni 80 come cantante dei Blake Babies, un trio rock universitario di Boston nella stessa scena di Pixies e Throwing Muses. Con Hey Babe, nel 1992, Hatfield inaugura una lunghissima carriera solista, raggiungendo una discreta notorietà grazie a Spin the Bottle, pezzo incluso nella OST del film generazionale di Ben Stiller Reality Bites (da noi Giovani, carini e disoccupati).
Rispetto alla scena di cui sopra, Juliana si è sempre contraddistinta per un’eleganza invidiabile, probabilmente un’eredità della sua famiglia della classe medio-alta del Massachusetts.
Lightning Might Strike, uscito per la American Laundromat a metà dicembre, è il ventunesimo (!!!) album in studio della cantautrice. Dopo due anni di gestazione, Hatfield lo ha prodotto da sola, suonando la maggior parte degli strumenti. È un disco nato nella solitudine e dalla sofferenza, come lei stessa racconta nella press release.
È stato un periodo difficile per me quando ho iniziato a lavorare a questo album. Mi ero appena trasferita dal condominio in città dove vivevo da vent’anni, in una casa in una cittadina più rurale a due ore di distanza, dove non conoscevo nessuno […] Sono stata piuttosto depressa per un anno intero […] e mi sono sentita persa e molto sola.
Lightning Might Strike è un disco indie rock in cui melodie pop catchy fanno da contraltare a una scrittura profonda e a temi importanti.
Blizzard di Dove Ellis
Ad inizio dicembre è uscito Blizzard, l’album d’esordio di Dove Ellis, cantautore irlandese di Galway. Sarà che di lui si sa ancora pochissimo (su Wikipedia faticano a stabilire se è nato nel 2002 o nel 2003 e se ora viva a Manchester o Liverpool), sarà il periodo natalizio, ma a me pare che tutto abbia avuto lo svolgimento di un classico dickensiano.
Prima del 5 dicembre c’erano solo qualche demo su Bandcamp, un paio di singoli (Pale Song e Love Is), l’EP To The Sandals, l’apertura dei live dei Geese nel loro recente Getting Killed Tour e… BOOM, everyone loses their minds! Il Guardian è innamorato, Paste lo ha incluso fra le “Migliori Nuove Canzoni della Settimana”, Pitchfork lo snobba confermando la regola.
Blizzard è un esordio completamente autoprodotto: 10 pezzi intimi ma spontanei, per 30 minuti di musica sospinta da una voce potente e riconoscibile che ricorda i Buckley (padre e figlio) e Thom Yorke. Brani folk e chamber pop costruiti su chitarre, piano, fiati e archi.
È nata una stella.
Unclouded di Melody’s Echo Chamber
Bentornata su questi lidi a Melody Prochet, musicista francese titolare del progetto Melody’s Echo Chamber, con un background fatto di chamber e twee pop. Unclouded è il quarto album in studio per la chanteuse, pubblicato ancora una volta da Domino Recording.
Unclouded è un album di folk psichedelico, glassato e impastato di riverberi, dream pop nostalgico verso un futuro ancora tutto da scrivere. Si respira aria di sixties, d’avanguardia e di Velvet Underground & Nico. Le percussioni e gli archi hanno un ruolo più rilevante rispetto a quanto ci aveva abituati nelle uscite precedenti. Ne risulta un sound stratificato, anche grazie ai collaboratori di cui, di volta in volta, ama circondarsi, come Malcolm Catto, produttore e batterista già con Madlib.
Il miglior augurio di fine anno è che con questo album riesca a smarcarsi definitivamente dall’etichetta di ex-di-Kevin-Parker (Tame Impala).
Tremor di Daniel Avery
Daniel Avery è produttore e DJ britannico che ha cominciato a mettere dischi indie nei club di Bournemouth già a 18 anni (oggi ne ha 39), ma è stato un viaggio a Ibiza a folgorarlo e a portarlo sui generi house, IDM, ambient e techno.
Quest’anno Daniel ha firmato con Domino e, a inizio novembre, ha pubblicato Tremor, un album che ha trovato spazio in diverse classifiche di fine anno. Si tratta di un disco molto diverso dai precedenti (più rock), probabilmente anche grazie al contributo di diversi ospiti che arrivano dai mondi diversi del pop, dell’indie rock e del punk. Yeule, Alison Mosshart dei Kills, Yunè Pinku, Cecile Believe e Andy Bell dei Ride – che in un disco così non poteva mancare – si muovono dentro Tremor apportando contributi riconoscibili.
Il disco, mixato da Alan Moulder già al lavoro con Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins, si muove tra ambient, noise-pop, industrial, shoegaze e post-punk. Personalmente mi ricorda Burial, Nathan Fake, Actress, ma in realtà è inconfondibilmente Avery.
Per approfondire
📅 Nonostante il cambio di proprietà di qualche anno fa e le conseguenti perplessità del settore, Bandcamp continua a essere un grande alleato per musicisti e musiciste indipendenti.
Penso, ad esempio, ai Bandcamp Fridays: giornate in cui Bandcamp rinuncia alle proprie commissioni, garantendo che il 100% dei proventi vada direttamente ad autori e autrici e alle label.
Nel 2025 i Bandcamp Fridays hanno generato 19 milioni di dollari, superando il 2024. L’ultimo venerdì dell’anno ha raccolto oltre 3,8 milioni in sole 24 ore! L’iniziativa, nata nel 2020 come tampone post-Covid (pessima scelta di parole), ha già generato oltre 154 milioni di dollari in vendite disintermediate.
🤖 Ti ricordi il meccanismo della opt-out exception voluto dal governo britannico per consentire alle AI di accedere ai contenuti culturali di default, a meno che artisti e artiste non neghino esplicitamente il consenso opera per opera? Un sondaggio ha rivelato che l’88% delle persone partecipanti (11.500 in totale) è contrario a questo meccanismo, quindi in linea con l’industria culturale, che ora chiede di abbandonare definitivamente una proposta di legge considerata dannosa.
🎙️ In vista di Sanremo 2026, Francesco Carrubba su Blast ha scritto un post sui costi del Festival e su alcune questioni legate ai contributi Rai e alla serata delle cover. L’articolo è dietro paywall, ma se non l’hai già fatto puoi chiedere che il primo contenuto su Blast ti venga sbloccato gratuitamente.
My job here is done: buona fine e buon inizio!
Alla prossima!
(Hai notato che non scrivo mai “A presto”?)





